La pace perpetua

Avevo promesso di non ripeterlo più ma lo ripeto comunque: su questo blog scrivo molto meno di quanto vorrei/dovrei anzi dovrei perché se lo volessi veramente riuscirei ad aggiornarlo molto più spesso…
Il fatto è che mi rendo sempre più conto di quanto mi sia utile scrivere sui libri che leggo per memorizzarne meglio gli elementi più salienti.

Proprio per questo motivo avrei da scrivere nuovamente sul libro di Fromm “Fuga dalla libertà”: e siccome non “riesco” a scriverne sono fermo anche nella lettura perché non voglio accavallare concetti importanti fra di loro prima di averli separati, elencati e analizzati.

Ma, siccome io sono io, non scriverò neppure oggi di Fromm ma di un libriccino, forse un po’ meno importante (dal mio limitatissimo punto di vista) ma sempre molto utile: “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant.

Ero un po’ titubante prima di iniziarne la lettura perché temevo potesse essere un’altra traduzione incomprensibile ma fortunatamente qui Kant si deve esprimere già lui in un tedesco meno sofisticato e quindi anche la versione italiana è perfettamente comprensibile (a parte qua e là dei termini che CREDO siano fuorvianti rifacendosi magari a vecchie traduzioni di altre opere).

Il libro, scritto nel 1795, è attualissimo: l’argomento infatti è quali debbano essere le basi politiche/morali per costruire una pace duratura (perpetua mi sembra un po’ troppo ottimista!) fra i diversi stati. E come forse saprete la pace in Ucraina e in Palestina sono oggi argomenti molto dibattuti.

Il libro è molto breve, quasi una sorta di bozza o articolo lungo, e nella prima parte elenca una lista di precondizioni necessarie (ma non sufficienti) a ottenere una pace duratura.

- Ecco la prima precondizione: “Nessun trattato di pace deve essere ritenuto tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura. Infatti sarebbe in tal caso solo una semplice tregua, una sospensione delle ostilità […]” (*1).

E già qui, 200 anni fa, ci viene spiegato ciò che è segretamente ovvio a tutti: la tregua in Palestina non può durare perché l’accordo temporaneo non è stato sottoscritto in buona fede da nessuna delle due parti: Israele non vuole uno stato palestinese né Hamas deporre le armi. E questo come minimo! (*2)

- Un’altra precondizione è che gli stati siano “repubblicani” dove, con tale termine, Kant intende che rispettino il volere della popolazione (poi a capo dello stato vi potrebbe anche essere un re).
Questo perché la guerra la vogliono i potenti non le popolazioni (che invece le pagano col proprio sangue) e se quindi saranno queste ultime a decidere se una guerra va fatta oppure no ecco che, automaticamente, esse saranno molto più improbabili.
“In una costituzione, invece, in cui il suddito non è cittadino e che quindi non è repubblicana, la guerra è la cosa più facile del mondo, perché il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario e nulla perde dei suoi banchetti, delle sue cacce, castelli, feste a corte ecc. a causa della guerra […]” (*3)
Piccola riflessione: e la UE, guidata da guerrafondai, è quindi “repubblicana” nel senso del termine di Kant? Quante volte la popolazione è stata interpellata se vuole o no la guerra con la Russia?

- Le popolazioni dei diversi stati devono essere tolleranti fra loro senza trattare ostilmente lo straniero che non delinque presente sul proprio territorio.
Kant favorevole quindi all’immigrazione e al globalismo? Non proprio:
“[…] ospitalità significa il diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente. Egli può essere allontanato, se ciò può essere fatto senza suo danno, ma sino a quando se ne sta pacificamente al suo posto, non va trattato da nemico. Non si tratta di un diritto di ospitalità cui egli possa fare appello […] ma di un diritto di visita […]” (*4)
Probabilmente il concetto di immigrazione non era contemplato da Kant che, piuttosto, aveva in mente la colonizzazione europea verso cui è estremamente critico.

- Poi vi è un concetto che non mi è chiarissimo: secondo Kant la guerra fra stati è inevitabile a causa della natura umana ma, in una fase successiva, di progresso sociale e politico, gli stati tenderanno altrettanto naturalmente a una pace duratura.
Semplificando al massimo credo che la ragione del cambiamento stia nel fatto che la pace è complessivamente più proficua della guerra e che quindi stati abbastanza maturi E repubblicani tenderanno alla prima.
“Così come la natura separa sapientemente i popoli che la volontà di ogni stato, e proprio secondo i principi fondamentali del diritto internazionale, tenderebbe a unificare sotto di sé con l’astuzia e con la forza, così essa d’altro lato unisce i popoli, che il concetto del diritto cosmopolitico non assicurerebbe contro la violenza e la guerra, con l’attrattiva del reciproco interesse.” (*5)

- Poi ci sarebbe tutta una serie di avvertimenti su quanto rapidamente la giustizia possa abbandonare uno Stato anche quando, almeno inizialmente, si sarebbe voluto attuare il bene per la popolazione.
I politici non sono filosofi e rapidamente dimenticano la morale per puntare all’interesse. Che alla fine predomina la forza usata per piegare il diritto e altri concetti molto attuali.
Io mi limito a citare la seguente sintesi: “Questo significa che chi ha afferrato il potere non si lascia prescrivere leggi dal popolo.” (*6)
Vi è poi un accenno al fatto che, per limitare queste tendenze, è preferibile un approccio legislativo pratico piuttosto che teorico. Qui ipotizzo, ma si tratta solo di una mia intuizione, che Kant comparasse la rivoluzione francese e quella americana apprezzando di più la seconda: del resto la Francia stava entrando nell’epoca del “terrore” che sembra fatta a posta per evidenziare come possano degenerare anche le migliori intenzioni.

- Lasciatemi poi togliere una piccola soddisfazione personale: in una delle mie tante teorie postulavo che i giudici non fossero dei buoni giudici della moralità di una legge. La mia argomentazione era psicologica: i giudici, secondo me, sono vittima del fenomeno di dissonanza cognitiva che si avrebbe quando dovrebbero applicare delle leggi che ritengono ingiuste. Per evitare questa dissonanza i giudici tendono quindi a ritenere ogni legge giusta e sono ciechi verso i loro eventuali risvolti ingiusti.
Ovviamente il ragionamento di Kant è filosofico ma comunque stranamente parallelo al mio. Anche se forse si tratta di un dettaglio troppo specifico per interessare il mio lettore medio voglio comunque condividerlo.
“Infatti, poiché non è loro [dei giudici] compito il mettere in discussione la legislazione stessa, ma di eseguire le norme sancite dal diritto positivo vigente, per loro ogni costituzione legale in vigore e, se questa viene mutata in alto loco, la successiva, deve sempre essere la migliore: così tutto avviene secondo l’ordine meccanico suo proprio. Ma se questa abilità di adattarsi a tutte le selle suscita in loro la presunzione di poter giudicare anche sui principi di una costituzione politica in generale, secondo concetti giuridici (quindi a priori, non empiricamente), se essi si vantano di conoscere gli uomini (e questo è attendibile, dato che hanno a che fare con molti), senza tuttavia conoscere l’uomo e ciò che di lui può essere fatto (a ciò è necessario un più alto grado di osservazione antropologica), e se, con questi concetti, si avvicinano al diritto pubblico e al diritto internazionale, come prescrive la ragione, allora essi non possono compiere questo passo in altro modo che con spirito sofistico, seguendo il loro cammino abituale (quello di un meccanismo di leggi coattive dispoticamente sancite) anche dove i concetti della ragione vogliono una coazione legale unicamente fondata sui principi della libertà, che soli rendono possibile una costituzione duratura conforme al diritto.” (*7)
Io invece nella mia nota 2073 (della versione 1.15.0) scrivo: “I giudici sono anche vittima di un curioso tipo di dissonanza cognitiva: da una parte il lavoro li obbliga ad applicare la legge, dall'altra alcune leggi, o specifiche applicazioni di esse, sono ingiuste. Il giudice si troverebbe così nella condizione di dover far applicare delle leggi che si risolverebbero in un'ingiustizia. Questa contraddizione morale fa sì che i giudici si convincano della distorsione “le leggi sono tutte giuste”. La conseguenza è che, curiosamente, proprio i giudici non sono adatti a giudicare la validità morale di una legge ma, invece, la possono solo valutare da un punto di vista puramente tecnico e di applicabilità.”

- Viene poi riassunta la strategia d’azione del “politicante” (Kant usa termini più alti) basata su tre principi:
1. “Fac et excusa”: cioè prima coglie l’occasione per agire e poi, solo successivamente, prova a giustificare le proprie decisioni.
2. “Si facisti, nega”: mai ammettere i propri errori e, anzi, negarli.
3. “Divide et impera”: provocare divisioni nei propri nemici.
Molto attuali no? Ecco riassunta la politica attuale di destra e sinistra in Italia e non solo.
Chiosa Kant: “[…] per quanto riguarda quelle massime [le tre appena elencate], ciò che può fare loro [ai politici] vergogna non è la pubblicità, ma solo l’insuccesso nell’applicarle (poiché per quanto alla moralità delle massime tutti [ovvero i politici] sono d’accordo).” (*8)

- Infine un esempio di disaccordo fra me e Kant.
Nell’appendice finale, “Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico”, Kant introduce il principio chiamato “forma della pubblicità”. Prevedibilmente esso non ha niente a che vedere con la pubblicità alla tivvù ma, piuttosto, si intende ciò che è reso pubblico, ovvero noto a tutta la popolazione.
Kant usa questo principio come bussola per individuare cosa possa essere morale e cosa no nella politica: se un articolo, una massima, una legge, se un principio reso pubblico causa una rivolta allora è immorale.
Basandosi su questo argomento Kant arriva a delle deduzione che a me paiono però sofismi: il motivo è la debolezza del principio.
In pratica basa la moralità di un’idea in base alla reazione di una specie di oracolo: ma questo oracolo, spesso identificato nella popolazione, non è perfetto né onnipotente. Voglio dire che il popolo potrebbe non insorgere contro una legge immorale semplicemente perché il vizio di questa è nascosto e non evidente, oppure potrebbe non reagire semplicemente perché non avrebbe abbastanza forza per farlo.
Poi, intendiamoci, lo stesso Kant mette un po’ le mani avanti precisando: “[…] non si può reciprocamente concludere che una massima, per il solo fatto che sia compatibile con la pubblicità, sia anche giusta: per il fatto che, chi ha un potere decisamente superiore, non ha bisogno di tenere nascoste le sue massime.” (*9)
Poi, probabilmente, Kant dà per scontato di essere nell’ipotesi in cui il popolo possa capire sempre e perfettamente le conseguenze di una massima/legge/principio reso pubblico (ammesso che sia possibile) ma comunque basare il valore morale di essa sulla sua reazione mi sembra troppo vago e incerto pur ipotizzando, per esempio, che il popolo abbia sempre la forza, la volontà e la capacità di rigettare ciò che non gradisce.

Vabbè, nel complesso un libriccino estremamente gradevole e comprensibile. Non ne ho scritto ma c’è anche una breve appendice dove mi pare che l’autore abbia mostrato anche un discreto quanto inaspettato senso dell’umorismo! Lettura direi consigliata perché comunque non troppo impegnativa.

Nota (*1): tratto da “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant, (E.)RCS Quotidiani, 2010, trad. Marina Montanari e Laura Tundo Ferente, pag. 5
Nota (*2): potrei scrivere ancora a lungo della questione ma preferisco non divagare: per approfondimenti rimando al mio altro blog Geo Gatti-8
Nota (*3): ibidem, pag. 29.
Nota (*4): ibidem, pag. 34.
Nota (*5): ibidem, pag. 48.
Nota (*6): ibidem, pag. 57-58.
Nota (*7): ibidem, pag. 61-62.
Nota (*8): ibidem, pag. 63-64.
Nota (*9): ibidem, pag. 80.

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